"Dalla terra al colore"

  • Descrizione

Enrico Formica (critico d'arte) - Giugno 2019

Nei provocatori esordi surrealisti, l'utilizzo dell'object trouvé aveva una valenza solo secondariamente ecologista. Poi, man mano che il dramma della salvaguardia del pianeta si è affacciato alla coscienza della collettività per diventare oggi centrale e doverosamente ossessivo, 'salvare' attraverso l'arte oggetti giunti al termine del loro ciclo funzionale è diventata una pratica diffusa. Attualmente l'arte fondata sul riciclo conosce un periodo di grande fortuna e le mostre ad essa dedicate sono frequenti. Personalmente l'ultima che ho visto e apprezzato è stata Re Use a Treviso, curata da Valerio Dehò (ottobre 2018 – febbraio 2019).
Ciò che pone Maria Capellini al riparo da un effetto inflazionistico non è tanto la lunga data di militanza e nemmeno l'aver adottato questa pregiudiziale fin dall'inizio della propria attività applicandola in modo rigoroso, ma il fatto che la sua scelta deriva in modo naturale dall'essere cresciuta a Volastra, aerea frazione sulle colline di Manarola. Il dato comune di tutti i lavori di Maria Capellini è infatti, più ancora della tecnica del riciclo, l'appartenenza ad un territorio, sia per quanto riguarda i materiali utilizzati che da un punto di vista concettuale: ogni sua opera conserva, riproduce, tramanda elementi della natura e della cultura popolare delle Cinque Terre.
La sua visione deriva dunque dall'essere vissuta all'interno di un ecosistema peculiare, la cui persistenza dipende da una necessaria e continua opera di antropizzazione. Il Parco delle Cinque Terre presenta infatti una caratteristica specifica, molto anomala nel quadro complessivo delle riserve naturali: un'eventuale, radicale preservazione della natura così com'è condurrebbe, e avrebbe già condotto in passato, al collasso di un territorio geologicamente fragile e soggetto a crolli, smottamenti, frane. Solo una paziente e saggia opera di contenimento degli agenti naturali ha consentito e consentirà la sopravvivenza di questo miracolo naturale: creazione e protezione di alvei per le acque, terrazzamenti, riforestazioni, perfino muri e case sono stati e sono interventi necessari alla sopravvivenza dell'ecosistema. Di qui l'esigenza di conciliare costantemente le necessità dell'uomo e quelle della natura in un delicato equilibrio che l'era del turismo di massa potrebbe pregiudicare. Abbiamo visto come la fragilità profonda di questo processo si sia tragicamente manifestata nell'alluvione dell'ottobre 2011. Nell'opera di recupero e pulizia seguita al disastro, è proprio tra quelle macerie che l'artista ha trovato e riscattato materiali, dando loro la dignità di una nuova esistenza.
Nascere e crescere nel Parco ha significato quindi per Maria Capellini identificare la bellezza in reperti creati sempre sia dalla natura sia dall'uomo. La prospettiva antropocentrica prevede un continuo ciclo di scambio nel quale la natura subisce da un lato costanti prelievi di materia prima e dall'altro riceve materiali di scarto, organici e inorganici; è una forma inevitabile di sfruttamento, che succhia vita e restituisce morte. Ciò che dall'uomo torna alla natura, esaurito il proprio compito di valore d'uso, torna a farne parte e a subire l'effetto del tempo e degli agenti atmosferici. Questo vale in realtà per qualunque manufatto e anche per le opere d'arte, che nel corso del tempo cambiano fisicamente e cambiano nella percezione di chi le vede, come racconta brillantemente Marguerite Yourcenar in Il tempo grande scultore.  
Specularmente, ciò che dalla natura viene prelevato ed elaborato dall'uomo assume ovviamente una forma diversa ma è sempre memoria della natura, ha una sua forma, direi addirittura una sua dignità, prima ancora che l'intervento umano gliene assegni un'altra. È questa forma primigenia che governa il modus operandi di Maria.
L'attenzione alla natura e alle modalità antiche di "usarla" è propria più delle donne che degli uomini, per la diversificazione realizzatasi a suo tempo fra i sessi nel processo di divisione del lavoro: l'uomo del settore secondario (l'industria) - e ancora più quello del terziario - ha perso quel contatto con la natura che aveva quand'era raccoglitore e cacciatore e poi contadino. La donna artista conserva invece spesso questa impronta ecologica. Dunque, l'attività artistica originale e scevra di influenze di Maria Capellini trova consonanze e rapporti con i lavori di altre donne artiste. Farei l'esempio di Maria Lai, che si rapportava in modo concettualmente simile col mondo arcaico dell'Ogliastra: si pensi solamente a quale dignità artistica ha saputo attribuire all'attività tradizionale della filatura a telaio. Farei l'esempio, per rimanere in Liguria, di Renata Boero, la cui pratica artistica più conosciuta è sostanzialmente una sublimazione dell'attività della tintoria praticata con metodi naturali. Certo ci sono anche artisti maschi capaci della stessa sensibilità: per rimanere in ambito locale, Gianni Lodi, recentemente scomparso, creava esclusivamente a partire dai materiali gettati dal mare sulla spiaggia sotto casa sua, a Framura.
Un altro aspetto rilevante dei progetti artistici di Maria Capellini è il loro stretto rapportarsi con gli spazi espositivi in cui vengono allestiti. Molte di queste opere sono già state presentate col titolo Il soffio di Gea dal 15 febbraio al 15 marzo 2018 nella Saletta del Giardino del Museoteatro della Commenda di Prè a Genova. Nel piccolo cortile della Commenda gli allievi dell’Istituto Tecnico-Professionale Agrario e Ambientale “Bernardo Marsano” di Sant’Ilario hanno ricreato un antico Giardino dei Semplici, con cui Maria ha scelto di porsi in simbiosi strettissima. Infatti, accanto alle sculture di materiali riciclati che sono parte preponderante della sua produzione, un Erbario d'artista creato ad hoc raccoglieva acquerelli di piante medicinali e nutritive. Alimentarsi e curarsi in modo naturale costituisce un ovvio ampliamento ideologico-culturale della necessità di produrre meno spazzatura possibile. Non per niente nel bel catalogo di quella mostra spiccava un dotto testo del compianto Franco Paolo Olivieri, in cui si ricostruiva l'identità del Paradiso come 'orto circolare', hortus conclusus, sulla base dell'etimologia della parola e di precisi riferimenti bibliografici.
Oggi, alla luce di quel che si è detto finora, esporre i lavori di Maria Capellini in un Museo Etnografico significa presentarli nella cornice in assoluto più idonea e coerente. Per sottolineare la pertinenza di questa collocazione l'artista ha voluto creare due nuovi lavori di grande impegno, che hanno richiesto un anno di tempo. Concepite pensando alla sede espositiva, queste opere si presentano come particolare forma di squisiti reperti etnografici: un secondo Erbario dal titolo Di tutti i colori, dedicato alle piante tintorie, e un'installazione che si presenta come un vero e proprio sistema di colori ottenuti naturalmente dalle piante descritte nel libro.
L'erbario per sua natura raccoglie e distilla un sapere popolare trasmesso oralmente attraverso le generazioni e i secoli. Crearlo ha comportato per l'artista una lunga ricerca prima documentaria, poi, letteralmente, sul campo, spiando la giusta maturazione delle parti utili della pianta (fiore, frutto, radice, corteccia o foglia), infine in studio sperimentando effetti e risultati delle tinture. Le prime pezze tinte di lino grezzo sono andate a comporre il retro-copertina dell'erbario, che dietro a ciascun acquerello reca una didascalia scientifico-pratica sulle modalità di utilizzazione della pianta.
Altre pezze, grandi, pure, montate su una struttura di legno, hanno composto un lavoro di grandi dimensioni e straordinaria suggestione, Pezze di natura. Si tratta di un'installazione, o meglio di una “scultura di pitture”, capace di fondere le radici antiche della cultura materiale con l'essenzialità concettuale propria di tanta arte contemporanea, generando emozioni allo stesso tempo concrete e astratte: la tridimensionalità a geometria variabile la costituisce come oggetto intorno al quale si gira, séparé incombente e reale nello spazio; la purezza totale dei quadrati perfetti di colore naturale è spirituale e  archetipica, quasi un grado zero di ogni possibile pratica artistica.
Questi lavori più recenti esorbitano dunque dall'arte riciclata vera e propria e si pongono in generale come esaltazione della grande forza della natura; essi non fanno che ampliare una sfera espressiva già di per sé ampia, con soluzioni di grande varietà sorrette da una fantasia brillante, sempre consapevole del proprio luogo e del proprio tempo.