Sotto la galleria che porta alla spiaggia nuova di Vernazza ho rintracciato un ferro da stiro antico, di quelli che ancora si mettevano sulla cucina a scaldare. Ho pensato alla storia di quell’oggetto, anzi me la sono immaginata. Comprato da un marittimo sotto i portici di Piazza Caricamento a Genova come regalo alla madre, il ferro da stiro ha svolto dignitosamente il suo lavoro: ha stirato l’uniforme della prima guerra mondiale, l’abito scolastico di un bambino, la stola di un prete, la divisa da balilla, il completo nero di una vedova, la bandiera tricolore senza più lo scudo savoiardo, un fazzoletto rosso, un paio di jeans ed una maglietta del Parco delle Cinque Terre. In quel piccolo, modesto, arrugginito e malandato oggetto c’era, in fondo, la storia intera di un paese. Ma come tutte le vite che finiscono diventando ricordo, anche il ferro da stiro aveva concluso il suo ciclo. Non aveva una tomba, una targa, una lapide, non aveva avuto la dignità di diventare storia, magari finendo in un banco di cose vecchie o antiquariato. Così Maria Capellini ha ridato dignità alle cose che erano sfuggite alle mensole, alle cantine, alle librerie. Solo che quella maledetta alluvione dell’ottobre 2011 non si è portata via soltanto gli oggetti – pezzi di fornelli, tavole, tazze, careghe, letti e comodini, persino televisori, portiere d’auto, insegne di negozi, - si è portata via anche delle vite umane lasciando una scia di irreversibile dolore inchiodato ora nella panchina di marmo o nei tavoli della piazza dove transitano i ricordi, le frasi dette, gli aneddoti su chi non c’è più tra uno stuolo e l’altro di turisti indifferenti. Vernazza si è rifatta il look, è diventata ancora più bella, ha acquisito un senso di comunità più forte di prima nella sua originalità esistenziale per niente provinciale, così autonoma e diversa, senza pregiudizi né preclusioni, in fondo legata al momento più bello della sua vicenda recente quando divenne una piccola capitale delle libertà degli anni settanta.
Sotto la rena si cela ancora qualcosa. Scavando si possono trovare storie, racconti, voci che salgono dal sottosuolo e sprigionano il desiderio di sentirsi parte della comunità. Perché quegli oggetti non appartengono solo al nostro presente, ma al passato, sono tasselli inanimati di un’unica vicenda che passa da generazione in generazione senza interruzione o soste. E tutti sanno benissimo, a Vernazza, terra d’ingegni e emancipazione, che anche una suola di scarpe, una cornice, una foto strappata o un centrino di pizzo contengono l’essenza del divenire, del passaggio, dell’esistere, del narrare. E trasformando questi oggetti - seppure logorati dal mare e intrisi di fango, innervati dalla resistenza passiva alla valanga dell’alluvione - in pezzi d’arte, come ha fatto Maria Capellini, ecco che le storie si svincolano, si alimentano, rinascono.
Tocchi di Vernazza è un titolo che si può leggere in due modi: come “pezzi” di una storia collettiva e come “impronte” di una vicenda mai scritta che attraversa le case, i muri, le camere da letto, i salotti, i luoghi dove sono andati in scena momenti affettuosi e momenti dolorosi, così come è il cammino esistenziale. Insomma, il respiro delle cose. Il rispetto verso la Natura porta questi oggetti a rivivere in una chiava “pacifica”, non definitiva, non offensiva. Mai nulla è definito nella nostra relazione con la Natura. Le opere d’arte sono assemblaggi inediti che, oltre a superare il distacco dagli oggetti perduti da qualcuno, ci regalano nuove suggestioni, tutte romantiche, inoffensive: lune, promontori, stelle, solleoni, carte geografiche che disegnano rotte immaginarie. Se una volta nel mare si cercavano cavallucci marini e ossi di seppia – come ci ricorda la poetica di Montale, - oggi il mare ci restituisce i danni che noi causiamo. Non aspettiamo più messaggi in bottiglia, aspettiamo residui del nostro quotidiano. Dal dolore dell’alluvione il mare ci restituisce la nostra memoria. In fondo bisogna ringraziarlo.