Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del Bene e del Male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi (Genesi 2, 8-10).
Da allora siamo sempre andati alla ricerca del giardino perduto poiché il paradiso non è altro, anche etimologicamente, che un orto circolare, privo di peccato, quello che i monaci chiamavano un hortus conclusus.
È l’ora di far scendere dallo scaffale il Liber cibalis et medicinalis pandectarum dell’insigne medico della Scuola Salernitana, Matteo Silvatico e sfogliarne con dolcezza le pagine.
Qui sono evocate le virtù medicinali di alcune piante, familiari a tutti e supporti indispensabili della nostra cucina come il basilico, la maggiorana, la menta, il rosmarino, il timo. Nella classificazione settecentesca di Limneo assumono le fascinose denominazioni di ocimun basilicum, origanum maiorana, di mentha piperita, di rosmarinus officinalis, di thymus camphoratus.
A livello popolare si è quasi completamente perduta l’antica saggezza della civiltà contadina che faceva riferimento alle conoscenze dei monaci benedettini e, nel nostro caso, dei monaci guerrieri, i cavalieri dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detti cavalieri gerosolimitani divenuti successivamente cavalieri di Rodi ed infine di Malta.
I monaci avrebbero saputo dirci che il basilico può essere usato come base di un collutorio per le infiammazioni del cavo orale, che l’infuso di maggiorana ha proprietà antidepressive e espettoranti, che la menta ha una funzione digestiva e antispasmodica, che il rosmarino è antireumatico e protegge il sistema immunitario, che il timo è indicato per le infezioni alle vie urinarie.
Per non recidere definitivamente il nostro passato, dobbiamo tornare al giardino primigenio, che non potrà più essere quello divino ma che almeno sia l’hortus simplicius medicamentorum dei conventi medioevali, un giardino dei semplici dove nasce sempre qualcosa in tutte le stagioni, come sosteneva Isidoro di Siviglia.
Nel 2011 è’ stata meritoria l’azione dell’Istituto Tecnico-Professionale Agrario e Ambientale “Bernardo Marsano” di Sant’Ilario che ha progettato e realizzato, all’interno della Chiesa-convento-collegiata di San Giovanni di Prè, il recupero dell’antico giardino dei semplici, dal basso Medioevo il luogo di incontro, di studio e di lavoro dei monaci cavalieri costantemente operativi nel sostenere l’afflusso dei pellegrini da tutta Europa in vista dell’imbarco per Gerusalemme e nell’alleviare le pene degli infermi, costituendo di fatto uno dei primi ospedali genovesi.
Gli allievi della scuola agraria, guidati dai loro docenti, hanno ridato vita all’antico hortus conclusus, ben consapevoli della necessità di una buona esposizione solare verso il Sud, rispettosi del significato simbolico dei punti cardinali, giacché da Est a Ovest si segue il divenire della luce e a a Nord ci si innalza verso la stella polare la cui linea immaginaria congiunge il cielo e la terra. E se il cerchio è simbolo dello spirito questo si fa quadrato o rettangolo, si fa materia nell’ospitare le piante che mutano a seconda della stagione, che traggono beneficio dall’azione congiunta del giorno e della notte, del sole e della luna. La badessa Ildegarda di Bingen non cessava mai di insegnare alle novizie la conoscenza delle erbe medicamentose, ospitate nello spazio della clausura, quello maggiormente protetto e previlegiato.
La medicina monastica chiedeva anzitutto il consenso divino mediante la preghiera e successivamente si ricorreva all’azione medicamentosa, depurativa e balsamica dei semplici, ossia le varietà vegetali necessarie alla cura del sistema respiratorio, dell’apparato genito-urinario, del sistema nervoso, della cute e del sistema cardio-circolatorio. Oggi il giardino dei semplici di San Giovanni di Prè ospita le piante medicinali della tradizione ligure, accanto al basilico, al rosmarino e al timo ci sono l’ulivo, la salvia e l’erba medica; la maggiorana e la menta si accompagnano all’origano e al garofano selvatico. L’orto ospita piante evocatrici di virtù religiose gravide di significati simbolici: l’umile viola, la resistente ginestra, l’unificante melagrana, la fertile vite dei grappoli e dei tralci, il divino mirto, il protettivo corbezzolo , la pura e profumata lavanda.
Un hortus simplicius non può che ispirare il senso di protezione della terra e della flora. Non è un caso che un’artista come Maria Capellini abbia sentito la necessità di proporre la visione di alcune piante trascurate, tipiche della vegetazione ligure e fattesi ormai rare, a causa dell’incuria di chi dovrebbe proteggerle. Per quanto tempo riceveranno ancora il soffio vitale la centaurea veneris, il narcissus poeticus, il gladiolo dei campi, il fiordaliso di Porto Venere, la viola odorata o viola mammola, il silene vulgaris, detta anche erba del cucco? È necessario che qualcuno si dia la pena di riportarne l’immagine, di acquarellarla con estrema delicatezza, di presentarla all’onore del mondo. L’azione artistica si fa opera salvifica, si fa pedagogia per un percorso botanico, sconosciuto ai più. Si realizza così il connubio tra l’antico e il nuovo, tra la persistenza secolare dell’hortus simplicius e l’odierna denuncia dell’abbandono di una terra come quella ligure dove gli uomini non sanno più dare il nome alle piante, non vogliono più riconoscerne il valore estetico e pratico. In un ideale giardino dell’Eden, evocato tra le ospitali, salvifiche mura della Commenda di Prè, le figlie di Flora si riuniscono ancora una volta nella speranza che l’uomo ascolti il loro grido di dolore e voglia ritornare da Gea, la madre terra, finalmente consapevole di ritrovare la pace e l’armonia primigenia nel grembo originario, l’unica possibilità di salvezza.